Covid-19: mortalità in terapia intensiva

Covid-19: mortalità in terapia intensiva

Scopriamo in questo articolo quale è stata finora la mortalità in terapia intensiva per Covid-19 in Italia e quali sono gli elementi che lo hanno determinato.

Per prima cosa, per avere un riferimento e giudicare con obiettività il dato riguardante il Covid-19, vediamo qual è il tasso di mortalità standard in terapia intensiva.

 

Mortalità standard in terapia intensiva

Di norma il tasso di mortalità in terapia intensiva, in generale, è attorno al 30%. È un tasso medio, che riguarda tutti i malati che sono alloggiati nei letti di terapia intensiva. Diciamo, per praticità, che, in media, ogni tre persone che entrano in terapia intensiva per un problema acuto, uno muore, uno sopravvive senza conseguenze e il terzo sopravvive ma con conseguenze gravi.

Questo è ciò che accade in media, di norma, considerate tutte le malattie nel loro insieme e per molte malattie prese singolarmente.

Grossomodo anche per le polmoniti gravi, quelle più impegnative, si mantiene questa proporzione. Ovviamente la mortalità può cambiare in base all’età e alla presenza di altre malattie concomitanti.

 

Confronto del dato medio con gli altri paesi del mondo

Ora confrontiamo i dati di mortalità italiani e nel mondo.

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La BBC ha riportato qualche statistica relativa a uno studio scozzese (1), nel quale si riferisce un 32% di mortalità, 44% di sopravvissuti e un 24% di pazienti ancora in trattamento. Questi ultimi, a termine della degenza, si divideranno ulteriormente tra morti e sopravvissuti, probabilmente in pari proporzione, portando quindi la mortalità attorno al 40-50%.

Dati simili si osservano in Lombardia lo studio che abbiamo già citato attesta la mortalità media tra 55 e 60% (2).

Non stupisce che il dato lombardo sia leggermente superiore a quello scozzese, perchè in lombardia venivano ricoverati in terapia intensiva pazienti mediamente più gravi.

 

Differenze di mortalità tra le terapie intensive Covid-19 in Italia

Finora abbiamo ragionato di medie. La media dei risultati di tutte le terapie intensive in Scozia oppure in Lombardia. E abbiamo visto che i risultati sono sostanzialmente analoghi. Ma i risultati sono stati analoghi tra tutte le terapie intensive o la media è prodotta da dati piuttosto variabili tra loro? Purtroppo non sono stati rilasciati i dati suddivisi per singole terapie intensive. Però noi, che siamo in prima linea, possiamo raccontarvi cosa è accaduto realmente.

A livello teorico non ci dovrebbe essere una ragione specifica per avere delle differenze nella mortalità tra una terapia intensiva e l’altra, per lo meno significative. Perché tutte hanno trattato malati con la stessa malattia (Covid-19), per cui ci aspetteremmo dei risultati simili in tutte le terapie intensive. Invece non è stato affatto così! (3)

 

Distribuzione ipotetica dei dati

Immaginiamo di creare un grafico in cui mettiamo in orizzontale la percentuale di decessi di ciascuna terapia intensiva e in verticale mettiamo il numero di terapie intensive che hanno avuto quella percentuale di decessi.

Se riempiamo di dati il grafico e ci fosse poca variabilità tra le terapie intensive, vedremmo un andamento di questo tipo:

mortalità terapia intensiva

In questo grafico ipotetico quasi tutte le terapie intensive hanno una mortalità attorno al 50%, il valore medio misurato in Scozia e in Lombardia, con poche eccezioni agli estremi della curva. Se tutte le terapie intensive avessero una mortalità più o meno simile, in questo grafico ci troveremmo con una grande concentrazione di dati attorno al valore centrale di mortalità, con una scarsa variabilità attorno al dato medio (4).

 

Distribuzione reale dei dati

In realtà la curva reale è diversa da questa che abbiamo mostrato. Nelle regioni particolarmente colpite, specialmente in Lombardia, le terapie intensive hanno avuto una mortalità molto variabile tra di loro.

mortalità terapia intensiva

Molte delle terapie intensive hanno avuto una mortalità inferiore a quella media, cioè attorno al 25-30%, mentre molte altre hanno avuto una mortalità ben superiore, attorno all’80%. Ovviamente la media di tutte le terapie intensive rimane attorno al 50%, però frutto di due picchi molto precisi.

 

Questo fenomeno ha interessato solo alcuni ospedali?

Ci si potrebbe aspettare che questa distribuzione di mortalità tra le terapie intensive Covid-19 sia avvenuta prevalentemente in qualche categoria di ospedali, magari quelli meno quotati. In realtà il fenomeno è avvenuto in tutti gli ospedali che hanno alloggiato una grande quantità di pazienti Covid-19 critici, sia ospedali più blasonati che ospedali meno noti. Nello specifico, in tutti quegli ospedali che hanno alloggiato molti più pazienti critici rispetto alle possibilità della struttura.

 

Come interpretare la differenza di mortalità tra le terapie intensive Covid-19?

È stata una carenza di macchinari, o di personale o di competenze o cos’altro che ha prodotto una differenza di risultati così significativa?

 

La risposta degli ospedali alla quantità di pazienti Covid-19

Per capire cosa è accaduto dobbiamo riportarci a quei momenti in cui si sono organizzati i posti letto di fortuna che hanno alloggiato i pazienti Covid-19.

Le terapie intensive Covid-19 sono state ricavate oltre che nelle terapie intensive tradizionali, anche in strutture diverse, le sale operatorie oppure strutture dedicate che sono state riadattate per lo scopo.

Al di là della logistica, ovvero il luogo fisico che ha ospitato i pazienti, quello che è cambiato molto tra una terapia intensiva e l’altra è stato il personale. Ma per quale motivo il personale è così fondamentale per l’esito di un malato Covid-19?

 

Le necessità di assistenza di un malato Covid-19 critico

Anzitutto occorre considerare cosa significa per una terapia intensiva gestire un paziente Covid-19 grave. Questi pazienti avevano una grave polmonite, che comportava la necessità di ventilazione meccanica per poter dare sufficiente ossigeno. Quindi occorre personale sia medico che infermieristico competente nella ventilazione meccanica. Non solo. Occorre rimuovere secrezioni del paziente, gestire il posizionamento di un paziente prono, che determina ulteriori problematiche, come l’infusione continua di farmaci per bloccare i movimenti, come i curari. Spesso questi malati necessitano di importanti pressioni di ventilazione, per cui accade che la circolazione del sangue sia compromessa, con la necessità di gestire infusione di farmaci potenti per il cuore e per il circolo.

Per l’esecuzione di tutte queste attività occorre personale molto competente. Il personale, medico ed infermieristico, deve essere esperto nella gestione di una ventilazione molto difficile: devono gestire il giusto bilanciamento tra le pressioni di ventilazione e i danni al circolo sanguigno che esse comportano, gestire tanti malati proni e complessi, e per di più in condizioni disagiate per via dei presidi di protezione indossati di continuo.

 

Il rallentamento delle attività con i presidi di protezione individuale

Possiamo affermare senza il rischio di essere smentiti che i presidi di protezione individuale rallentano di almeno il 50% le attività che si possono svolgere senza le protezioni. Vi chiederete perchè. Provate solo ad immaginare cosa significa tentare di pungere una vena del braccio con addosso tre guanti uno sopra l’altro, oppure fare attività faticose come la pronazione di un paziente con la visiera e la maschera che fa appannare i propri occhiali personali. Un delirio.

 

Il personale delle terapie intensive Covid-19

È evidente che in queste condizioni di forte disagio e alta difficoltà è necessario utilizzare personale altamente competente.

Nelle terapie intensive messe in piedi di fortuna il personale è stato reclutato ovviamente anche da altri reparti. Quando il personale proveniva dalle sale operatorie, come nel caso della realtà di Jesolo per esempio, ed era integrato nel turno assieme al personale esperto di rianimazione la qualità dell’assistenza non si è ridotta in modo consistente, garantendo un’assistenza di livello comunque elevato.

In altre situazioni invece il personale reclutato è stato preso anche da altre unità operative. Se queste unità operative sono affini alla terapia intensiva, come nel caso del pronto soccorso, sale operatorie, dialisi, il personale condivide una buona quota di competenze. Ma mi è capitato di vedere in terapia intensiva di notte 3 infermieri in turno, di cui uno esperto in rianimazione e gli altri presi dagli ambulatori. Che non avevano mai gestito un paziente critico in vita loro. O mai fatto una notte di guardia. Impossibilitati a svolgere degnamente il lavoro richiesto per carenza di competenze specifiche nel malato critico e di formazione, di resistenza alle difficoltà e di esperienza per anche soltanto notare un problema da segnalare al medico di guardia.

La carenza di personale esperto alla base delle differenze di mortalità

Abbiamo assistito perciò alla formazione di reparti di terapia intensiva di livello standard – quando sono rimasti a svolgere il loro servizio medici ed infermieri “di ruolo” – e di qualità limitata – quando i posti letto sono stati gestiti da personale non esperto. Non ci deve perciò sorprendere che in alcune rianimazioni messe in piedi di fortuna con personale inesperto i malati non abbiano ricevuto la stessa qualità di assistenza come nei reparti di serie A.

Di qui la differenza nella mortalità tra le terapie intensive normali, di serie A, e quelle di fortuna con personale di fortuna, diciamo di serie B, o C. I due picchi di mortalità si spiegano quasi del tutto in questo modo.

In un ospedale dove ho lavorato in epoca pre-covid-19 c’era una terapia intensiva con 4 letti. Durante il periodo Covid-19 questo ospedale ha avuto 22 letti di terapia intensiva. La rianimazione 1 è stata portata a 6 letti, poi è stata creata la rianimazione 2, con altri sei letti, la rianimazione 3, con altri sei letti, e la rianimazione 4, con altri quattro letti, per un totale di 22 letti intensivi.

Riassumo in questa tabella le mortalità di queste terapie intensive:

  • Rianimazione 1, 6 letti (serie A) – mortalità 40-50%%
  • Rianimazione 2. 6 letti  (serie A) – mortalità tra 40% e 50%
  • Rianimazione 3, 6 letti (serie B) – mortalità 80%
  • Rianimazione 4, 4 letti (serie C) – mortalità 100%.

 

Conclusione: mortalità in terapia intensiva per Covid-19

La mortalità in terapia intensiva per Covid-19 nelle terapie intensive di alto livello (personale qualificato e macchinari adeguati) si aggira attorno al 25-40%, a seconda della complessità dei casi.

La mortalità nelle terapie intensive di basso livello (con personale di fortuna e mezzi inadeguati) si aggira attorno al 80%.

La media è frutto di queste due realtà ben diverse che hanno coesistito durante il momento di massima allerta. Ad oggi la mortalità è tornata al 25-40%, perchè i malati Covid-19 sono assistiti solo nelle terapie intensive di serie A.

Ma cosa succederà se aumenteranno i casi di Covid-19? Fino a quando il sistema reggerà mettendo in campo squadre di serie A per trattare i pazienti Covid-19? Quanto manca al dover mettere in campo squadre di serie B o C?

 

 

Med4Care Marco De Nardin

Dott. Marco De Nardin

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  • (1) https://www.bbc.com/news/uk-scotland-52653192
  • (2) attenzione il dato non è citato direttamente, ma si evince dallo studio in questo modo: si sommano i morti tra i pazienti già usciti dalla terapia intensiva a quei pazienti che presumibilmente moriranno tra quelli che ancora sono ricoverati e che verosimilmente avranno una distribuzione simile tra guariti e deceduti, come già osservato in modo diretto sul campo.
  • (3) Quelli che mostriamo sono dati che siamo in grado di ricostruire dalla nostra esperienza personale, dalle informazioni dirette dei colleghi e dalle informazioni indirette che gli stessi hanno raccolto dai loro colleghi. Il grafico non è frutto di dati precisi, perché non sono disponibili, ma lo abbiamo costruito per mostrare in modo visivo quello che intendiamo raccontare.
  • (4) questa curva ipotetica è di tipo gaussiano ed è stata scelta solo a titolo esemplificativo.