La scoperta dei batteriofagi

La scoperta dei batteriofagi e il contesto storico

La scoperta dei batteriofagi 

La scoperta dei batteriofagi, come la maggior parte delle scoperte scientifiche, non è ascrivibile ad un momento preciso nel tempo. Piuttosto che un evento, la scoperta è un processo, durante il quale le diverse osservazioni di fenomeni batteriolitici inspiegati hanno portato numerosi scienziati a costruire nuove ipotesi e infine a verificare l’esistenza di questi elementi. 

  

Il contesto storico della scoperta dei batteriofagi 

I batteriofagi o fagi (tradotto letteralmente “mangiatori di batteri”, dal greco “φαγεῖν” “phagein” – mangiare) sono delle minuscole “macchine” biologiche programmate per infettare e distruggere le loro prede, i batteri, sfruttando la biologia di questi ultimi per replicarsi. 

Il processo che ha portato alla loro scoperta e riconoscimento da parte della comunità scientifica internazionale è iniziato nelle prime decadi del ‘900. Prima di allora, non si aveva idea dell’esistenza dei virus come li conosciamo oggi; infatti alla fine dell’800, nonostante i progressi nel campo della microbiologia, le conoscenze del mondo dei microorganismi erano ancora molto limitate. 

Dopo aver capito come coltivare i microorganismi in laboratorio (batteri e funghi, anche se non era chiara la distinzione) era chiaro che questi fossero ubiquitari, e che per proteggersi dalle malattie che portavano fosse necessario sterilizzarli, chimicamente o meccanicamente, soprattutto in ambito medico. La parola virus viene dal latino “veleno” ed era allora utilizzata dagli scienziati per indicare in generale un agente biologico nocivo.  

Uno dei metodi tramite il quale era possibile sbarazzarsi meccanicamente dei microbi era la filtrazione. La filtrazione prevedeva che l’acqua venisse sterilizzata facendola passare tramite le maglie di filtri che avevano diverse dimensioni. È presto stato chiaro che alcuni morbi non riuscivano a passare tramite le maglie, mentre altri sì, poiché più piccoli. 

 

Le prime osservazioni dell’esistenza dei batteriofagi 

Come avevano fatto gli scienziati a non accorgersi dell’esistenza dei batteriofagi fino ad allora? Come si diceva nell’introduzione, la scoperta scientifica è un processo, il cui inizio è l’osservazione, da parte degli scienziati, di eventi inspiegati. In un momento di grande fermento negli studi microbiologici, dove venivano coltivati in laboratorio comunemente dei batteri, è facile speculare che ci fossero stati casi in cui queste colture venissero attaccate da batteriofagi; talvolta era infatti successo che alcune colture batteriche fallissero, e qualcuno riportasse l’accaduto in articoli scientifici. Tra il 1896 ed il 1917 sono 30 le pubblicazioni che riportano di strani eventi litici osservati sui batteri.  

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L’osservazione del fenomeno di per sé, non è però sufficiente. È necessario che l’osservazione venga identificata come un fenomeno naturale sconosciuto che necessita di una spiegazione. È Félix d’Herelle che si rese conto per la prima volta che i batteri non crescevano per un motivo preciso. Nel 1911 egli riporta la presenza di chiazze chiare all’interno delle sue colture batteriche di Coccobacillus e ipotizza che siano dovute ad una sovrainfezione della coltura con un “ultramicrobo”: era l’inizio della scoperta dei batteriofagi. 

Allo stesso modo nel 1915 il microbiologo inglese Frederick Twort osserva la formazione di strane macchie traslucide nelle sue colture batteriche, e che questo materiale può provocare a sua volta la disintegrazione di altre colture batteriche. 

Per questo motivo solitamente sia Twort che d’Herelle sono considerati i padri della scoperta dei batteriofagi e vengono citati insieme. 

  

La consolidazione della scoperta dei batteriofagi 

Le osservazioni del nuovo fenomeno di predazione dei batteri continuano. Nel 1917 Felix d’Herelle nota che i batteri della dissenteria che studiava venivano lisi in coltura formando delle “placche” nelle sue piastre, e che l’agente di lisi si continuava a propagare anche diluendolo moltissimo. Quindi egli decise definitivamente che esistesse un microbo invisibile capace di parassitare e uccidere il batterio.  

Escluse le altre possibili spiegazioni che i batteri venissero eliminati da componenti del siero come le proteine del complemento o il lisozima, Felix d’Herelle poté dare il nome di batteriofagi a questi microbi. Per capire se fossero degli elementi fluidi o particolati, Felix d’Herelle consultò persino un’autorità assoluta come Albert Heinstein. 

Nel 1935 finalmente il gruppo di ricerca di Wendell M. Stanley a New York, diede una svolta alla ricerca sui batteriofagi, escludendo del tutto che si trattassero di agenti chimici inanimati. Stanley riuscì a cristallizzare il virus del mosaico del tabacco e dimostrare finalmente che i virus fossero composti da macromolecole biologiche, come proteine e RNA. Per questi esperimenti di cristallografia Stanley fu insignito del premio Nobel per la chimica nel 1946. 

 

I batteriofagi sono vivi? 

Dopo questa prima constatazione più solida, ci sono voluti più di vent’anni affinché l’esistenza dei batteriofagi fosse accettata all’interno della comunità scientifica internazionale. Grazie anche ad innovazioni tecnologiche si poté comprendere meglio l’esistenza e la natura dei batteriofagi. Molte domande però rimanevano ancora irrisolte riguardo alla natura di questi nuovi esseri: esistono specie diverse di fagi? Come sono composti chimicamente? Quanto sono grandi? Come si riproducono? Da dove derivano? 

Una delle domande che intrigò di più gli scienziati negli anni della scoperta dei batteriofagi ha un sentore quasi filosofico: i batteriofagi sono esseri viventi? Questa domanda è più che lecita, soprattutto se interpretata alla luce del concetto di “essere vivente” del tempo, che si basava su proprietà macroscopiche degli organismi più familiari all’uomo come gli animali. 

I canoni che caratterizzavano un essere vivente includevano proprietà come il movimento, la capacità di muoversi, l’assimilazione di nutrienti. Alcuni fecero persino degli esperimenti per capire se i batteriofagi “respirassero”, ma senza risultato. Uno dei punti fondamentali che caratterizzava un essere vivente superiore era sicuramente la capacità di riprodursi. Si scoprì che questi virus potevano sì riprodursi, ma solamente alla condizione di sfruttare un batterio ospite e quindi sono stati classificati come “parassiti intracellulari obbligati”. 

 

Essere o non essere: un dibattito ancora aperto 

Ancora oggi i virus sono collocati nella terra di mezzo tra il vivente e il non vivente, probabilmente perché i criteri che definiscono la vita non sono chiari nemmeno oggi, e che il dibattito riguardo al fatto che i virus in generale sono viventi sia ancora aperto.

Alcuni scienziati definiscono la vita in base alla capacità di replicarsi e in base alla capacità di nascere e di morire. Inoltre, si aggiungono alla definizione un certo grado di autonomia biochimica e quindi la capacità di svolgere autonomamente le attività metaboliche che sostengono la vita dell’organismo. I virus sono parassiti completamente dipendenti dalla cellula che infettano, quindi l’idea generale è che i virus siano parassiti non viventi di sistemi metabolici viventi.  

 

elena boero

Dott.ssa Elena Boero, Biologa

 

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Fonti e note:

  • Burrowes BH (2021) Bacteriophages. Springer International Publishing, 
  • Are Viruses Alive? – Scientific American